L'Acchiappanero a spasso tra la Genova medievale e quella del Duemila

Wikipedia / Twice25 & Rinina25

Pubblichiamo di seguito un estratto del romanzo di Paola Pruzzo,

Genova, 08/11/2017.

Le origini: Elezione di Simon Boccanegra

Il 23 settembre 1339, era giornata di fermento a Genova.
I due Capitani del Popolo Raffaele Doria e Galeotto Spinola si apprestavano ad eleggere l’Abate affiancati da 20 delegati popolari.

Ma il malcontento della gente si frangeva a ondate negli stretti vicoli che spumeggiavano di urla e strepiti: «Vogliamo  Simon Boccanegra, sia Signore e Duca, deponete i Diarchi!!!»  fino ad alzarsi, veloce come  marea, alle soglie della Cattedrale di S.Lorenzo.

Come l'acqua, quando si ritrae lascia doni preziosi nelle secche di sabbia, così questi tumulti, che chiamavano gente in piazza,  lasciavano disadorne ed incustodite porte e finestre dei vicoli indietro.
Sicché qualcuno più furbo, ed anche più ladro, poteva aggirarsi poco notato e raccogliere, molto agilmente, ciò che da finestre o porte socchiuse gli paresse idoneo a guadagnarsi la giornata: poteva essere un pane, oppure una boccetta di profumo, o chissà quale chincaglieria da vendere al mercato; insomma  il ladruncolo, di mezza età, non si occupava che la folla avesse torto o ragione: per lui era lo stesso. Ciò che doveva assolutamente ascoltare era il ruggito del suo stomaco, unico motivo che lo impegnasse in qualche modo a sprecare energie preziose.

«Pe mi sun tutti paegi, pe pittà sun buin, ma quande ghe da dividde… in ta stacca a mi nu me vegne mai ninte… Diarchi, Capitani del Popolo, Abati del Popolo, ma son sempre di loro, e io? Mi me piggiu quellu che me pa, prima che vengano i Saraceni a prendersi tutto… buin quelli…».

Dandosi sempre ragione, Nicoloso passava così le giornate, che se fossero state tutte come oggi, con quella confusione, sai che spasso!
Il suo viso era aguzzo ed attento, con quell’espressione che saettava a cogliere la benché minima opportunità, mentre la sua figura, alta e distinta, pareva flemmaticamente assorta sulle righe di quella carta antica, tipo mappa di naviganti. La frescura serale aiutava la lettura accompagnata da passi lenti e tranquilli, che si arrestavano solo quando, guarda caso, gli occhi taglienti notavano, con una veloce alzata di palpebra, un uscio socchiuso, mentre sembrava che il soffermarsi fosse solo il presagire di una considerazione più attenta di ciò che stava leggendo.

La carta era tenuta con entrambe le mani, dalle quali pendeva un bastone, come da passeggio, ma sulla cui sommità era  applicato un retino da pescatore.

«Simon Boccanegra eletto primo Doge in San Lorenzo!»

«L’hanno eletto, evviva…»

«Mah… sua madre è di Siena, mi nu so miga» cianciava qualcuno!

Intanto Nicoloso, avvedutosi di una tavola già imbandita, da una finestra aperta, e notata un'ottima focaccina, con la consueta pacatezza di movimenti si avvicinò ciondolante e,  facendo dondolare avanti e indietro il suo bastone, con le rughe della fronte corrugate nell’intensa lettura, roteandolo velocissimo, lo affondò al di là della finestra, da dove pescò il cibo profumato, cosicché recitando fra sé e sé  alcune parole dello scritto e facendo scivolare nell’ampio manicone la refurtiva, si avviò soavemente alla fine di vico di Canneto il Curto.

Da lì per Via dei Giustiniani, non resistendo al caldo aroma proveniente dal suo manicone farcito di focaccia, con l'avidità di un cane randagio si abbuffò a larghi morsi, facendo sparire in bocca l'invitante focaccetta, e continuò la passeggiata indispettito soltanto da un fastidioso singhiozzo:

«Sto crescentin... hep... u nu ghe vueiva!»

Convenendo tra sé che avrebbe dovuto bere qualcosa, meglio se vino, decise di avviarsi verso Piazza degli Embriaci, dove sapeva di trovare un gaglioffo amico suo, che  barattava ogni sorta di refurtiva: vivande, oro, stoffe e così via...

Pensò Nicoloso:

«Oh hep... c'è Gandolfo laggiù, hep... vediamo se riesco ad avere un po' di vino... hep... buongiorno amico mio...»

«Per cominciare non sono amico tuo! Poi dimmi cosa vuoi, dammi quel che voglio, prendi e porta via!»

«Hep, voglio il vino, ti do una bella pagnotta, hep... prendo il boccale e porto hep.. via... hep!»

«Mmmh...», fece l'altro pensieroso, «è tosto l'ora di far lavorare le ganasce! E va bene, pesce marcio, prenditi il vino e vattene!»

Gandolfo era fatto così, rude ed immediato e tutto volto ai suoi interessi: no, lui non c'era in S. Lorenzo oggi: lui, all'angolo della piazzetta, aspettava i risultati delle razzie odierne.

Avviandosi in Vico della Pece, Nicoloso, già ondeggiante per il vino robusto, si portò in Vico di pietre preziose, cercando un antro in cui potersi finalmente appisolare, trovandolo come d'abitudine  in Piazza Leccavela, oltretutto famosa, perché vi abitava un personaggio molto particolare, Giovan Battista, soprannominato l’Alchimista.

Come ogni alchimista che si rispetti, anche Battistino, così era chiamato dagli amici, cercava di trasformare in oro il vile metallo e si prodigava di giorno e di notte, combinando elementi naturali a strani rituali e parole antichissime:

«Aureus metallicus amatus es mihi te voco…»

Fatto sta che, alla fine di ogni suo intervento sugli elementi, tutto ciò che riusciva a creare era un liquido colloso, ogni volta di colore diverso: in particolare era riuscito, una sera, a creare una tinta nera brillante, dai meravigliosi riflessi dorati, e l’aveva chiamata Nero Alchemise.

Non era in grado insomma di  trasformare il metallo in oro, ma a lui si rivolgevano sempre dame e nobili signori, che volevano tingere le loro vesti di colori originali: ed originali lo erano senz’altro, visto che mai Battistino era riuscito a generare per due volte la stessa tinta, tanto era smemorato. 

Addirittura si racconta che i suoi colori avessero delle potenze in sè, ovvero: chi li indossava per la prima volta avrebbe acquisito un dono particolare.

Si suole ad esempio ricordare che una  fanciulla, dal cuore semplice e delicato,  ricevette dal Battistino, in cambio di una poesia per l'amata, una sottoveste dal color papiro con strani segni a mò di macchie d'inchiostro: da allora accadde che Giovannina, dall' animo elegante, riuscisse a trascrivere i suoi versi senza bisogno di penne dal momento che, appena li pensava, già apparivano scritti su carta. 

Oppure ancora  si ama ricordare di quel contabile che divenne il più abile banchiere di Genova, dopo aver fatto tingere i suoi abiti d'Argento Luna.

Naturalmente neppure Simone, primo Doge della città, era rimasto insensibile al fascino di questa Voce di popolo, e aveva perciò deciso che avrebbe fatto tingere il suo mantello di un colore nero, che donasse al padrone la capacità di mantenere a lungo il potere.

Così disse il sarto di Simon Boccanegra a Battistino:

«Vedi, sei fortunato tu: neanche una settimana dalla nomina a furor di popolo, e il primo Doge mi ha inviato già da te per fargli tingere il mantello e i guanti!»

«Oh bella, e di che colore lo vorrebbe, sentiamo?!?»

«Beh, lo vorrebbe nero e col dono di fargli mantenere a lungo il potere...»

«Mmmh, avrei giusto qui un bel Nero Alchemise con fantastiche striature dorate...»

«Sia il mantello che i guanti sono di fine velluto, pertanto avrei piacere tu non me li rovinassi!»

Il sarto invidioso, non era molto convinto delle effettive proprietà dei colori di Battistino, e non perdeva occasione per dimostrargli tutto il suo livore, ma le richieste  dei suoi clienti erano un imperativo per lui: figurarsi, poi, se erano formulate da uno che era appena stato eletto Doge.

«Ma stai tranquillo, Fine Velluto... lasciami i tuoi pezzetti di stoffa e vienili a ritirare tra due giorni. Ma mi raccomando: con moneta sonante!»

«Ricordati della Teresina,  piuttosto, incapace lunatico!» lo incalzò il sarto «Ti ricordi, vero, cosa combinasti a quell'adorabile fanciulla?!»

Entrambi si soffermarono su quel doloroso ricordo da cui originava il livore del sarto nei confronti di Battistino.

Tutto era accaduto l'anno precedente: essi si erano innamorati della stessa fanciulla, la Teresina, e quindi, da rivali in amore, avevano cercato di guadagnarsi i suoi favori, investendo tempo e denaro in doni originalissimi.  La giovane, lusingata dall'attenzione di entrambi, anche se poco propensa ad accettare le loro profferte amorose, si era mostrata incline a farsi donare, dall'uno, splendidi tessuti e, dall'altro, delicatissime tinte con le quali colorarli. Le sue maniere, dolci ed accattivanti, riuscivano ad irretire così tanto i contendenti, che ormai, i loro borsellini, si aprivano da soli al suo passaggio e lorsignori, neanche si accorgevano di perdere monete sonanti per la strada.

Da sola, poi, abilissima nel cucito, si confezionava gli abiti su misura e, leggiadra come una farfalla, si recava dinnanzi al poggioletto di un giovane poeta che, dal suo piccolo pulpito improvvisato, antistante il molo centrale,  declamava versi senza prestarle la minima attenzione.

Il cuore della ragazzina palpitava e si struggeva ma il poeta, algido e pensoso, non notava altro che il suo piccolo spicchio di cielo terso, perdendosi in esso, imprigionato unicamente dalla sua narcisistica arte. Quando, infastidito,  si accorgeva  della platea femminile sottostante, cercando di diradarla per non  incorrere nelle ire di padri o fratelli, soleva ricordare  ad ogni ragazza:

«Quando vai in città o in chiesa, vai convenientemente accompagnata da donne onorate secondo la tua condizione, e fuggi qualsiasi compagnia sospetta. Mentre cammini, porta la testa alta, le palpebre abbassate, senza sbatterle, e guarda dritto davanti a te, senza guardare intorno a te né uomini né donne, né a destra né a sinistra, e  senza guardare in su, e sbirciare qua e là, e senza fermarti a parlare con nessuno per la strada... capito? Senza guardare in su!».

Da sotto si alzavano, allora,  i sospiri delle  ammiratrici, ognuna convinta che avesse parlato a lei sola per difenderne l'onorabilità. Tra queste,  Teresina spiccava come un fiore colorato e profumato ma, ahimè, anche lei senza fortuna, in quell'epica impresa d'amore.

Sapeva, però, di avere un vantaggio su tutte le altre: poteva avvalersi gratuitamente dei servizi dei suoi due attempati pretendenti.

Dapprima, un giorno, si recò furtivamente dal sarto e, raccoltasi mestamente nella sua bottega, fingendo disappunto e rammarico, raccontò che qualcuno le aveva rubato un tessuto da poco ricevuto in dono, e che le dispiaceva immensamente, perché aveva intenzione di cucirsi un abitino, al quale far rifinire le parti più difficili da lui  stesso. Egli, lusingato, intravedendo una ghiotta occasione per passare un po' di tempo con lei, le fece subito scegliere una delle sue migliori sete, attendendo pazientemente che  ritornasse  col vestitino imbastito. Ringraziandolo, corse subito via, sicura e diritta, in Piazza Leccavela, dove abitava l'Alchimista.

A lui, con altrettanta malizia, schermendosi ma, allo stesso tempo, fingendo trasporto nei suoi confronti, chiese di tingere i bordi del tessuto con qualche bell'inchiostro capace di esaudire almeno un desiderio d'amore. Battistino, credendo che desiderasse le sue attenzioni, non si fece pregare, e soddisfò la sua richiesta.

Congedatasi anche da lui, la sera stessa, nella sua camera, cucì il tessuto tutta la notte, trasformandolo in  un meraviglioso abito da passeggio, decisa a sfoggiarlo il pomeriggio seguente sotto il balcone del poeta.

Quel pomeriggio, confusa tra la folla delle contendenti, durante la solita declamazione in versi, Teresina, col naso all'insù e socchiudendo gli occhi, desiderò intensamente che nascesse un amore profondo tra lei e l'uomo del balcone, che nel frattempo però, era stato strattonato dentro casa dal vecchio zio pescatore, che doveva gettare in strada gli scarti del pesce appena nettato.

La magia ebbe effetto: la fanciulla sentì come uno schiaffo sul viso e, pensando all'effetto dell'amore appena nato, dopo essersi tolta la lisca di pesce dalla guancia, sgranò gli occhi incantati verso il vecchio pescatore, deliziato fantino e, come lei, innamorato.

Di Paola Pruzzo

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