Due guide d'eccezione tra i vicoli di Genova, il racconto inedito di Bruno Morchio

Torre degli Embriaci / Wikipedia Twice 25

Genova, 03/08/2017.

Due guide d’eccezione

All’amico Riccardo Navone, 
archivio vivente della città di Genova

Un venerdì di luglio ero sceso in città per sbrigare alcune commissioni e alle otto di sera mi ritrovai in via San Bernardo fra una moltitudine di giovani che sostavano davanti ai bar, appoggiati ai muri degli antichi palazzi, con la sigaretta accesa e una birra tra le mani. Non ricordo come ci fossi finito, ma rammento bene il brusio che saliva dal caruggio verso un cielo ancora chiaro, madreperlaceo.

Era stata una luminosa giornata di libeccio, col mare striato di spume che esplodeva contro la diga foranea e, nonostante fosse ormai piena estate, l’aria si era mantenuta fresca e asciutta.

Avevo imboccato quella strada, l’antica Piazzalunga che dalla Civitas scende al mare, per raggiungere la metropolitana e tornarmene finalmente a casa. Dopo aver pranzato con due tramezzini e camminato per tutta la giornata non vedevo l’ora di ritirarmi nella mia cascina infrattata sulle alture della Valpolcevera, un vecchio rustico con il pozzo, l’orto e tanti alberi da frutta, costruito a ridosso delle mura del forte Fratello Minore.

In piazza Salvago, davanti alla facciata del palazzo degli Streggiaporco (interessante la storia di questa aristocratica famiglia che, una volta acquisito il blasone, volle far dimenticare la propria origine contadina marchiata a fuoco nel proprio cognome), mi si avvicinò un uomo alto e massiccio, vestito con una camicia bianca e calzoni neri di tessuto lucido che barcollava visibilmente. Mi rivolse un richiamo imperioso, la voce stentorea e impastata dall’alcol. «Ci conosciamo?» domandò.

«Non mi pare» risposi.
Aveva la barba scura e lunghi capelli appena brizzolati che scendevano fin sulle spalle; i suoi occhi penetranti, volitivi, mi scrutavano con un pizzico di diffidenza.

«Sono sicuro che ci siamo già incontrati» insistette e cominciò a camminare al mio fianco, incespicando e urtando contro ogni malcapitato gli si parasse davanti.
In verità anche a me la sua faccia non giungeva nuova; mi pareva di averla vista da qualche parte, se non di persona forse in fotografia, immagine trasfigurata quasi comparsa in sogno.

Quando giungemmo all’altezza di vico san Biagio mi afferrò per un braccio e mi costrinse a scantonare fino a piazza Embriaci.
«Eccomi finalmente a casa» disse con un sospiro incrinato di nostalgia; quindi, con un ampio, enfatico gesto del braccio, aggiunse: «Qui erano le case degli Embriaci, l’antica famiglia il cui esponente più illustre ha conquistato Gerusalemme

«Si riferisce a Guglielmo Embriaco?» domandai.

«Già, Testa di Maglio, il signore del Gibelletto: Guglielmo, il duce ligure, che pria del mar corsareggiar solìa... Ma che razza di città è mai questa? Leggete quella targa lassù» e indicò la lapide marmorea che sovrastava il portone del civico numero cinque. «Intorno a questa piazza ebbero stanza gli Embriaci, casato memorabile nelle Crociate e in Patria; giganteggia qui a tergo la torre nella sua antica struttura. 1869. Ma non c’è più una di quelle case che sia rimasta in piedi. E anche della torre qualcuno dice che non è quella originaria, che invece sarebbe stata costruita lassù, in piazza Santa Maria in Passione. E perfino il catino di smeraldo portato dal condottiero dalla Terra Santa: non solo anziché di smeraldo è fatto di cû de gotto, culo di bicchiere, ma si tratta d’un manufatto arabo prodotto diversi secoli dopo che Gesù consumò l’agnello nell’ultima cena.»

«Tutto farlocco, insomma.»

«Non proprio: perché la torre è vera. È sopravvissuta all’editto del console Drudo, che in città ne fece mozzare una sessantina perché non superassero i 20 metri, mentre questa ne conta ben 44! E tutto perché un po’ di gratitudine gli era dovuta, a quel grand’uomo.»

«Mi sembrate molto competente» osservai. «Siete forse una guida turistica?»

Mi guardò in tralice e si lasciò sfuggire un risolino di compassione. «Nossignore» rispose. «Sono una guida e basta.»

In quel momento il portone si aprì e si affacciò una bella signora. Portava i capelli raccolti sulla nuca in una crocchia di antica fattura e vestiva un abitino di cotone a fiori piuttosto lungo, sotto il ginocchio. Le prime ombre della sera si allungavano sulla scala che conduceva al portone e di colpo il brusio che proveniva da via San Bernardo non si sentiva più.

La donna ci venne incontro con passo leggero e aggraziato. Sorrideva al mio accompagnatore come se lo conoscesse e questi, a sua volta, ricambiò sforzandosi di assumere un contegno militaresco, ritto sull’attenti con le braccia strette al corpo. Ma fu un attimo, perché era troppo ubriaco e subito riprese a vacillare.

«Ho sentito tutto» disse la donna indicando il palazzo dal quale era uscita. «Probabilmente l’antica casa degli Embriaci stava lì, ma non se ne trova più traccia. Quando la nobile famiglia si estinse, all’inizio del Cinquecento, l’edificio passò ai Cattaneo e poi a Giulio Sale, che lo ristrutturò. Ma così come lo vedete ora, esso è opera della mia famiglia, e in particolare del doge Gio Francesco Brignole Sale, e risale al XVII secolo.»

Ci invitò ad avvicinarci e mi accorsi che, man mano che procedevamo, il mio compagno di strada mostrava un crescente disagio. In effetti, già dall’esterno, il palazzo offriva una parvenza di degrado e abbandono. Sapevo che apparteneva alla lista dei palazzi dei Rolli, i più prestigiosi della città, ma il suo stato di conservazione non era affatto buono. La donna spinse con fatica la porticina che si apriva nel pesante portone di legno pitturato di verde. Sul timpano marmoreo del portale, sostenuto da colonne doriche, poggiavano due putti e in bassorilievo erano scolpiti due elmi e un cartiglio. Una delle grandi finestre del piano terra, protette da grate di ferro, era chiusa con un pannello di lamiera.

«Che cos’è quello?» domandai.

«Un mampà» rispose la donna. «Gli architetti li chiamano “scaffali di luce”; all’interno sono lucidi come specchi e di giorno venivano aperti per riflettere nei laboratori artigiani l’avara luce che spiove nei vicoli

Entrammo nell’atrio e nella semioscurità l’impressione di decadenza si fece ancora più netta. Era coperto da volte lunettate e dava accesso a un ampio scalone con il corrimano scandito da colonnine di marmo. Mi accorsi che ne mancavano tre, probabilmente erano state rubate. L’intonaco era scrostato, dovunque pendevano fili della luce e il pavimento di graniglia genovese, rovinato in più punti, era stato rabberciato con colate di cemento. Salimmo le scale di marmo fino al mezzanino, pavimentato anch’esso di graniglia. Il volto del mio accompagnatore si faceva sempre più sconfortato, e l’espressione era quello di un condannato portato al patibolo.

Un secondo scalone, questa volta di ardesia, conduceva a un ballatoio con volta a crociera e infine al piano nobile, pavimentato con formelle esagonali di ardesia e marmo. Da qui partiva una scala più stretta con passamano di legno e gradini bianchi molto alti che conducevano ai piani sopraelevati dell’edificio.

Mi domandavo perché il grand’uomo mostrasse segni tanto evidenti di malessere. Forse aveva bevuto troppo e stava per vomitare?

«Non vi sentite bene?» domandai.
«Sto benissimo.» Esitò. «Ma la vista d’una simile incuria mi rattrista il cuore…»
«Pourquoi seriez-vous mécontent?» replicò allegramente la donna. «Posso assicurarvi che, quando mio marito e io vi soggiornammo, era già alquanto malconcio. Il mio Ludovico veniva da Milano ed era molto ricco ma, se volete sapere la verità, quando mi propose di apportarvi significative migliorie feci di tutto per dissuaderlo.»
«E perché mai?» chiesi stupito.
«Forse perché sono un’inguaribile romantica e volevo che le tracce del tempo rimanessero visibili a occhio nudo.» A quel punto tese la mano e, senza che glielo avessi chiesto, si presentò: «Piacere, sono la marchesa Luigia Brignole Sale.»

Ricambiai la stretta e mi presentai a mia volta.
«Di fronte a voi sta l’ultima nobildonna padrona di questo palazzo. Esso è appartenuto per oltre due secoli alla mia famiglia, finché alla mia morte ne è entrato in possesso il mio amato marito.»

«Chi abita qui dentro?» domandò l’uomo, sempre più nervoso.
«I grandi appartamenti d’un tempo sono stati suddivisi in piccole unità e acquistate da privati cittadini.»
«I quali non sembrano prendersene troppa cura.»
«È una questione di denaro, mon ami. Si tratta d’un palazzo storico e qualunque intervento deve essere attuato rispettando i criteri imposti dalle Belle Arti.»
«E allora?»
«Ristrutturare l’antico è costoso» rispose la marchesa. «Ma insisto: a me piace così, perché senza belletti e cosmetici porta impressi nella pietra i segni del tempo e della storia e ci ricorda che anche noi uomini siamo destinati a un fatale declino.»

L’uomo non sembrava convinto, la fascinazione gotica non era nelle sue corde, ma non replicò.
Nel frattempo si era fatto buio. Ci eravamo seduti sulle scale e riuscivamo a stento a scorgere i nostri volti e i nostri corpi, ombre evanescenti dissolti nell’oscurità. Intorno a noi regnava un silenzio assoluto, come se la casa fosse disabitata, e le nostre voci rimbombavano sotto le volte ormai invisibili del piano nobile.

«Mia sorella Maria, molto più famosa di me» proseguì la marchesa con una punta di acredine, «sembrava essersi dimenticata che questa è stata la dimora dei Brignole Sale. Anche suo marito, un uomo importante che portava il cognome dei De Ferrari, non se n’è mai interessato. Ci volle tutta la sensibilità d’un nobile milanese, e l’amore che portava a sua moglie, per apprezzare il valore di queste mura.»

«Ma non avete appena detto» obiettai, «che gli appartamenti sono stati frazionati e ora sono di proprietà di comuni cittadini?»
«Dettagli, giovanotto» replicò infastidita. «Questo è e resterà nella memoria il palazzo dei Brignole Sale, già palazzo Embriaci.»
«Voi abitate qui?»
Sorrise. «Qui, a Milano, a Parigi – dove ho sposato Ludovico – e in giro per il mondo. Ci è sempre piaciuto viaggiare. Avete mai visto le possenti mura del castello di Monte Ursino e della cinta che circonda la città di Noli?»
«Ci sono stato al mare, qualche volta.»

«Noi la visitammo durante un pellegrinaggio lungo la Riviera di Ponente. Un autentico gioiello. Per tacere della stupenda cattedrale di San Michele, sede della diocesi di Albenga, e delle tre torri che poco hanno da invidiare a quella eretta qui a fianco.»

A quel punto l’uomo si riscosse. «Le navi degli Embriaci veleggiarono davanti a quei borghi, incutendo paura e imponendo sottomissione. Le razzie compiute dai genovesi in quei luoghi si ricordano ancora oggi.»

Luigia emise un brontolio di disapprovazione. «Conosciamo bene le nefandezze commesse dalla soldataglia della Superba» disse alzando la voce. «Anche la presa di Gerusalemme a opera di Testa di Maglio, osannata in pompa magna dalla cristianità, fu seguita da una strage indegna che non risparmiò donne, vecchi e bambini. Il catino che Guglielmo Embriaco portò dalla Terra Santa gronda sangue di innocenti passati a fil di spada senza pietà

«Erano infedeli…»
«Erano esseri umani: musulmani, ebrei e perfino cristiani. E quelli che non furono uccisi vennero tradotti in Europa incatenati e venduti come schiavi!»
«Perché mai, se odiate tanto i vostri concittadini, continuate ad amare questo palazzo?»
«Ve l’ho detto, qui affondano le radici della mia famiglia.»
«La quale ha anch’essa goduto dei frutti di quelle predazioni…»
«I Brignole Sale furono pittori, dogi, religiosi e non predoni come voi!»
«Non azzardatevi più a chiamarci predoni» rispose l’altro in tono minaccioso. «Se mai, corsari.»

Una crescente confusione mi annebbiava il cervello. Forse era dovuta alla stanchezza e al prolungato digiuno, ma quel battibecco mi creò un senso di disagio carico di inquietanti interrogativi. Dove diavolo ero finito? Chi erano i due personaggi che nell’oscurità e nel silenzio avevano preso a litigare? Come potevano conoscere così bene la storia della città?

L’uomo era visibilmente alterato dall’alcol e, per giunta, si trattava d’un marcantonio forte e collerico: avrebbe potuto eccedere e diventare pericoloso. Allora mi rivolsi alla donna e la invitai a riprendere il racconto dei suoi viaggi.

«Il nostro cammino si concluse a Ventimiglia, l’antica città dei liguri intemeli. Qui visitammo il teatro romano, lo straordinario centro storico, costruito sul colle a destra del torrente Roja. Ci perdemmo nei suoi carruggi e a me pareva d’essere nuovamente tornata nella mia città. Restammo estasiati di fronte alla cattedrale dell’Assunta, al battistero e agli oratori di San Giovanni Battista e dei Neri. Ma soprattutto era l’atmosfera che si respirava: aria di casa.»

L’uomo farfugliò qualcosa di incomprensibile ed emise una specie di grugnito.

«Avete detto qualcosa?»

Un sorriso fatuo accompagnò le sue parole: «Prenderla è stato duro» sentenziò. «Con tutti quei nobilastri che le giravano intorno: Grimaldi, Visconti e Angioini. Ma alla fine il Banco di San Giorgio la assicurò alla Serenissima Repubblica, che la tenne fino alla sua caduta, quando non si rialzò mai più.»

Temevo che avrebbero ripreso a rimbeccarsi e così, rivolgendomi alla marchesa, interruppi l’ubriacone: «E che mi dite dell’altra Riviera, quella di Levante?»

«Ricordo ancora le case multicolori di Camogli e quelle di Portofino, incastonate nel verde del Promontorio. A San Fruttuoso abbiamo visitato l’antico monastero dove sono custodite alcune salme dei D’Oria. E l’incanto di Portovenere e il suo santuario della Madonna Bianca che domina il mare.»

«Anche su quel mare regnammo incontrastati» bofonchiò l’uomo con un fiero accento di soddisfazione.
«Pirati» ribatté secca la marchesa. «Questo siete sempre stati.»
«Sbagliate, signora mia: consoli e uomini d’arme.»
«Solo perché la Serenissima non si fece scrupolo di servirsi della vostra vocazione predatoria. Assaltare, uccidere e rubare è stata la vostra specialità.»
«Vi ho già ricordato» sospirò l’uomo con una punta di acredine, «che di quei frutti anche voi avete goduto: questa casa sta a dimostrarlo.»
«In questo palazzo non c’è pietra che riconduca a voi. Fu ricostruito dalle fondamenta quando gli alloggiamenti degli Embriaci erano ridotti in polvere.»

La questione si faceva sempre più ingarbugliata. Perché mai la marchesa si rivolgeva all’uomo come se si fosse macchiato dei più atroci delitti?
«Sapete che vi dico, marchesa?» attaccò l’uomo in tono sarcastico. «Non credevo che foste ipocrita fino a questo punto.»
«Ipocrita io?» saltò su la donna. «Come vi permettete, razza di bifolco!»
«Sicuro: ipocrita» ripeté l’uomo. «E volete che ve lo dimostri? Alzatevi e scendete in strada con me!»
La marchesa non mostrava alcuna intenzione di ubbidirgli. «Dove vorreste portarmi?»
«Vicino, molto vicino: ai piedi della torre.»
«E perché mai?»

«Per mostrarvi una curiosa targa di marmo che voi stessa − o qualcuno a voi vicino − faceste murare nella pietra e che recita: Opera degli Embriaci, coetanei al patrio Comune, dalle leggi dell’eccedente sua altezza rispettata, benché trapassata in Cattaneo, in Sale, in Brignole Sale, recando ai posteri in un colla piazza, palagio e via il nome dei fondatori, sta di pietoso eroismo e di civile grandezza monumento e testimonio. Ludovica Brignole Sale in Melzi d’Eril v’appose quest’epigrafe. Nel 1869. Una bella sviolinata, non vi pare?»

«Dovreste ringraziarmi» replicò la donna.
«Lo farò di buon grado, se avrete il buon gusto di ritirare gli appellativi che mi avete affibbiato di pirata e predone.»
«Io non ritiro un bel niente!»
«Da quando in qua ai predoni si dedicano epigrafi in nome del pietoso eroismo e della civile grandezza
«Ve l’ho spiegato: sono un’inguaribile romantica. Quella targa è stata apposta in omaggio alla città e alla sua storia: le città hanno bisogno di miti e di eroi.»
«Gli eroi sono merce rara, mia cara. E per trovarne uno degno di questo nome siete dovuta risalire fino a me. Non avevate qualche illustre personaggio nella vostra blasonata famiglia, o in quella del vostro facoltoso marito, che fungesse alla bisogna?»

Li ascoltavo e i loro discorsi, rimbalzati nel silenzio del piano nobile appena rischiarato dai lampioni della strada, mi facevano precipitare in un’atmosfera sempre più onirica, irreale. Stavano dunque mettendo in scena una rappresentazione teatrale e io ero stato scelto a casaccio, uno tra tanti ignari pellegrini della movida notturna, per assistere alla prova dello spettacolo?

Quante domande si affollavano nella mia mente sempre più annebbiata! Ludovica Brignole Sale – o Luigia che fosse − era morta oltre un secolo prima. Forse nel 1869; e la figura di Guglielmo Embriaco, storico condottiero della prima crociata, si nutriva più di leggenda che di concrete testimonianze storiche. E costoro volevano farmi credere d’essere… che cosa? Fantasmi? Reincarnazioni dei personaggi storici? E poi perché proprio loro due? Che cosa li legava, visto che erano vissuti a distanza di ottocento anni uno dall’altra?

«Che domanda» disse la marchesa. «La risposta è semplice.»

L’uomo non aveva parlato, né aveva formulato alcuna domanda. A chi stava rivolgendosi la donna?

«A voi» continuò. «È a voi che sto parlando.»
«A me?» chiesi sbigottito. «Leggete forse nel pensiero?»
«Non sono io a leggere nel pensiero: siete voi che pensate a voce alta.»

In verità non mi ero accorto di avere proferito parola, ma nello stato in cui mi trovavo non potevo escludere nulla.

In quel momento l’uomo si sollevò in piedi e il flebile chiarore che filtrava dalla grande finestra alle nostre spalle illuminò il suo volto pallido. Fu allora che, con un brivido, fui colto da una specie di folgorazione.

Al principio di questo fedele resoconto ho affermato che mi sembrava di averlo già visto da qualche parte, senza ricordare né il luogo né la circostanza. Ora mi sovvenne la visita, compiuta qualche mese prima, alla cappella del Palazzo Ducale, dove è custodito il dipinto di Giovanni Battista Carlone che raffigura l’assedio di Gerusalemme: in primo piano compare maestosa la figura dell’Embriaco che incita i soldati all’attacco. I suoi connotati sono gli stessi dell’uomo che mi stava di fronte!

«Un attore» pensai, facendo attenzione a tenere la bocca chiusa. «Si è conciato così, in modo da somigliare al condottiero genovese.»

L’uomo mi lanciò un’occhiata ambigua, misto di compassione e ironia, e scosse il capo. Come se mi avesse letto nel pensiero.
«Poc’anzi avete domandato: perché proprio noi due?» disse stirando un sorriso amaro.

Confesso che cominciavo a provare un sentimento che somigliava alla paura. Perciò decisi di reagire e prontamente risposi: «Vi separa un abisso, quasi mille anni di storia. Cosa può accomunare un crociato, console della Repubblica, a una romantica nobildonna dell’Ottocento?»

«Il principio e la fine» rispose la marchesa Brignole Sale in Melzi d’Eril. «Entrambi scolpiti in queste pietre.»
«Non capisco» balbettai.
«Questo è l’uomo più illustre d’una dinastia che in questa contrada, ai piedi della collina di Castello, costruì la torre e il palazzo che portano il suo nome.»
«E voi?»
«Io sono l’ultima vestale di tanta bellezza.»
«Dunque il palazzo è lo scenario dello spettacolo» dissi.
«Lo spettacolo della Storia» replicò l’Embriaco, avviandosi barcollante lungo lo scalone.
«Intendete la storia della città?» gli gridai dietro.
«Della città, che tanto abbiamo amato» rispose la donna, «e del mondo intero. La parabola delle dinastie e delle generazioni: un perenne avvicendarsi di personaggi e comparse, ineluttabilmente votate al declino fino alla scomparsa.»

«Ma perché avete scelto questa casa così fatiscente? Genova conta decine di palazzi meravigliosi, dove le antiche vestigia conservano tutto il loro splendore e gli affreschi campeggiano con i loro colori vividi e freschi.»

Anche la marchesa si alzò e si apprestò a scendere. «Perché i loro belletti»» rispose senza guardarmi, «anziché svelarla, nascondono la verità.»
«Quale verità?»
«Il perenne decadere della bellezza. Vale per gli esseri umani come per le civiltà. Neanche le pietre, questi arcigni materiali che pretendono di sfidare il tempo, sono immuni da tale destino. Guardate cosa resta di Micene, Troia, Luxor, i fori romani. Non lo splendore, ma l’idea dello splendore. È tutto quello che occorre per conservarne la memoria
«Perciò non avete permesso a vostro marito di rimaneggiare il palazzo?»
«Perché era giusto così: questa casa non mente.»
«Ma ci sarà pur qualcosa che sopravvive al tempo» dissi prendendo a seguirla verso il portone.
«Eccome, mon ami» rispose.

Eravamo ormai giunti nell’atrio. Lanciai uno sguardo oltre la grata della grande finestra e mi parve che fuori la luce si fosse fatta più chiara. Quanto tempo era passato? Stava forse sorgendo l’alba?
La donna con uno sforzo spalancò il portoncino, invitandomi a uscire.
«E allora?» la incalzai. «Ditemi: che cosa non subisce l’usura del tempo?»
«Una sostanza impalpabile, eterea» rispose la marchesa con un sorriso. «Ciò che ci permette di visitare le antiche rovine e immaginare il loro splendore e riascoltare le voci degli uomini che popolavano quei luoghi meravigliosi.»

Uscii all’aperto e continuavo a cercare il suo sguardo, che ora mi parve dolce e malizioso insieme.
«La parola?» azzardai.
«La parola scritta, la letteratura. Cosa significherebbero le pietre di Troia se Omero – o chi per lui – non avesse scritto L’Iliade?»

Il portone si richiuse con un colpo secco. La voce morbida della marchesa mi risuonava nella mente come una litania: Cosa significherebbero le pietre di Ilio

Intanto mi ero avviato verso il mare, con la speranza di trovare un taxi che mi riportasse a casa.

Di Bruno Morchio

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