Fulgur: all'Isola delle Chiatte un osso di capodoglio in mostra

Genova, 28/07/2017.

Viene inaugurata venerdì 4 agosto, sull’Isola delle Chiatte del Porto Antico, l'installazione di Mauro Panichella dal titolo Fulgur: si tratta di un osso di capodoglio. L'installazione è in tema con lo spettacolo La leggenda di Moby Dick, liberamente ispirato al romanzo di Herman Melville, che dal 23 al 27 agosto andrà in scena all’Isola delle Chiatte del Porto Antico.

L'artista racconta come è nata l'idea di realizzare una scultura davvero fuori dal comune: «Ad Albissola, il paese nel quale sono cresciuto, gli stabilimenti balneari iniziano a mettere in ordine i locali per l’arrivo della stagione estiva già alle soglie della primavera. La spiaggia in questo periodo è spoglia dagli ombrelloni e dalle cabine. Un pomeriggio di febbraio, passeggiando sulla spiaggia, mi è capitato di notare un enorme osso appoggiato sopra un bancale. Dato che si trovava sulla spiaggia, ho immaginato che si trattasse dell’osso di un grosso animale marino e ho cercato di ottenere più informazioni possibili al riguardo».

Dopo qualche giorno un pescatore racconta a Mauro Panichella di aver trovato l'osso durante un’immersione al largo di Savona. Aveva provato con fatica a sbiancare e a eliminare tutto il grasso dall’osso, prima facendolo bollire, poi bagnandolo con acqua ossigenata e infine verniciandolo ripetutamente con della tinta bianca alla nitro. Nonostante i vari tentativi di pulizia, l'enorme osso (circa 70 kg di peso) continuava ad annerirsi e a puzzare a causa delle grande quantità di grasso presente al suo interno. Il pescatore si era così arreso a lasciarlo all’aria aperta. Mauro propone allora di conservare il grande osso nel suo studio: l'idea era quella di utilizzarlo per realizzare un'opera.

«L’operazione di pulizia non è stata affatto semplice», racconta l’artista, «Una volta in studio, con calma, ho cercato di valutare il da farsi e ho iniziato a svolgere delle ricerche. Ho deciso di sistemare l’osso al sole, vicino a un formicaio. Con una certa difficoltà ho tolto lo spesso strato di vernice alla nitro per agevolare gli insetti nell’operazione di pulizia».

Studiando meglio il reperto, Mauro si rende conto che quella che aveva fino ad allora considerato come una vertebra, in realtà era un cranio. Il cranio di un capodoglio. Continua a raccontare: «La testa del capodoglio è molto pronunciata, perché contiene l’organo dello spermaceti (da qui il nome inglese sperm-whale). Grazie al peso specifico dello spermaceti, la sostanza oleosa presente appunto nella testa (da qui il nome italiano capo-d'olio), il capodoglio si può immergere fino a grandi profondità».

Il capodoglio è l’animale più grande presente negli abissi. La raccolta dello spermaceti fu il principale motivo della persecuzione dei capodogli da parte dei balenieri. Questa sostanza veniva ricercata, e in parte lo è ancora oggi, per un gran numero di applicazioni commerciali, come olio per orologi, fluido per trasmissioni automatiche, lubrificante per lenti fotografiche e altri strumenti ad alta precisione, in cosmetica, come additivo negli oli per motori, come fonte di glicerina, come composto anti-ruggine, detergente, fibra chimica, nella preparazione di vitamine e in più di 70 composti farmaceutici.

Come nasce il nome dell'opera, Fulgur? «Nel mio lavoro è molto importante lo studio del mezzo, dello strumento attraverso il quale si crea. Dopo la scoperta della luce elettrica, finalmente l’essere umano poteva vedere attraverso l’oscurità con un mezzo che non fosse effimero e che non comportasse la ricerca dello spermaceti, o l’utilizzo del petrolio. Solo nella lingua italiana esiste una parola che mette in relazione la balena e l’elettricità. Questa parola è baleno, che significa fulmine, ma che è anche sinonimo del manifestarsi improvviso di un evento straordinario, come la schiena di una balena che compare sul filo dell'acqua. Fulgur è il frutto di questa ricerca. Nell'installazione l'osso si presenta in stretta relazione con la sorgente luminosa - un bastone illuminato - che ho deciso di appoggiare sulla cresta del cranio, proprio dove i balenieri cercavano di puntare l’arpione».

Di Cristina Torriano

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