Cesare Viel in mostra e a teatro con Dar conto di sé

Cesare Viel

Genova, 17/05/2017.

«Un unico progetto con due anime», spiega Cesare Viel, «una performance al Teatro Sociale di Camogli e una mostra alla Fondazione Remotti. Siamo a Camogli, abbiamo due spazi che possono entrare in relazione... è stata proprio la curatrice Francesca Pasini a propormi questa combinazione. Un modo di creare interazione tra istituzioni dense e già in dialogo sul territorio». Un vernissage dunque e una serata a teatro sabato 20 maggio, quando Viel sarà anche protagonista sul palco di Camogli (ore 20.30) con Arianna MaestraleFabio Bergaglio e Michele Maestrale per la performance ispirata alla figura e alla poetica di Virginia Woolf dal titolo Cesare Viel - A Passage to Camogli with Virginia Woolf. Sempre il 20 maggio e fino al primo luglio, la Fondazione Pier Luigi e Natalina Remotti (via Castagneto 52) ospita la mostra Dar conto di sé. Figure, corpi, parole nell’opera di Cesare Viel.

L'occasione è quasi quella di un'antologica. Quasi perché ci saranno assaggi del lavoro dell'artista che toccano alcuni dei momenti apicali del suo fare arte, dagli esordi ad oggi, senza alcuna pretesa di essere esaustivi. «Per la mostra, Pasini ha scelto di campionare tecniche e approcci relative ai temi che sento più miei. Una selezione un po' concettuale, ma anche un po' emozionale, nell'intento di presentare come dei prototipi, tra scelte tecniche e modalità linguistiche. Ci saranno per esempio degli scatti fotografici legati ad alcune performance: da Virginia Woolf a Campana (Imola 2005), da Operazione bufera, nato intorno all'attacco kamikaze delle donne cecene in teatro, a Lost in meditation, ormai un'immagine icona. Ci sono anche altre fotografie pensate come opere a sé stanti, dunque non frutto di un'azione performativa». 

Nel titolo un'affermazione piuttosto forte: Dar conto di sé. Che cosa significa? Perché occorre dare conto di sé? «Esporre agli altri è un atto tuo personale, però c'è anche una responsabilità sociale: è un atto pubblico perché è dedicato agli altri. Quando sei chiamato a dire chi sei, te ne assumi la responsabilità, ma non si espone mai un sé rigido; in arte non si tratta di mostrare un io narcisistico, ma piuttosto un io relazionale, un io fessurato, forato, che dipende dagli altri. Un concetto maturato a partire dalle letture offerte da Judith Butler, da tempo una mia guida teorica. Il fattore di attraversamento degli altri nella forma personale dell'artista è legata alla creazione e al dar forma all'opera stessa. Gli altri presenti, assenti, gli altri immaginari, reali. Ecco dunque che dare conto significa riconoscere di essere attraversati dalla relazione».

Usarsi come materia è una pratica che ha accomunato molti artisti non solo all'interno dell'arte concettuale - mi viene in mente Marina Abramovich per esempio -, ma anche in generale nel campo delle performance fra teatro, happening, danza - all'Archivolto l'asolo di Cristina Kristal Rizzo ispirato a La sagra della primavera. Che cosa significa usare se stessi, come materia su cui modellare il proprio dispositivo artistico? Penso sia a elementi biografici che alla voce, fino all'interezza del proprio corpo. «Lo vedo come un divenire canale: c'è un dispositivo che si svuota, in campo resta la tua materia vivente, corpo come scrittura e come presenza performativa, al contempo in scena va la vulnerabilità del tuo io, quindi si scopre che il sé è un centro vuoto. Nelle opere ci sono io come faccia, come corpo, come scrittura, quindi la soggettività che metto in moto è evidente. La calligrafia parte anch'essa dal corpo, proprio come la voce, ma magari è meno esplicita. Eppure ogni elemento trattato, proprio per come viene utilizzato e analizzato, corrisponde a una personalità fluida, propone un io continuamente fragile, un io fatto da altri».

Quindi trasformarsi in materia determina una malleabilità del proprio sé che rompe ogni preconcetto, ogni certezza, ogni forma a priori? Eppure propone un modulo artisticamente e in qualche misura teoricamente pre-determinato. «L'io nell'opera d'arte è un centro di presenza, ma funziona quando si fa canale di svuotamento del sé e lascia aperte infinite letture, dove ognuno sente la propria emozione. In questo senso l'artista è un meccanismo di eccitazione emotiva e mentale. C'è anche un elemento intimo ed erotico, ma non in termini di offesa. Può far paura, perché è una realtà. Una dimensione di realtà che provoca disagio e che fa considerare il disagio una risorsa. Noi cerchiamo sempre di pulire tutto, la performance al contrario ti chiama a essere presente e non ti consente di pulire, devi stare in uno spazio di presenza con tutto quello che comporta. Fa paura non perché ci sia dell'aggressività, ma perché mette a nudo, in una specie di disarmo nonostante un'alta carica poetica. La performance ci fa stare e vedere quello che c'è, il che può essere problematico ma anche molto bello». 

Cesare Viel a teatro, è la prima volta? «Non proprio, in assoluto sono già stato con le mie performance in spazi teatrali, ma più dedicati alla sperimentazione mai teatri storici, specie un teatro all'italiana come è il caso del Sociale di Camogli. All'inizio non ero così d'accordo, poi mi sono convinto. In questo teatro denso di storia mi sento un estraneo, che entra in un luogo molto segnato, mentre in Svizzera mi sono sentito subito a mio agio perché era uno spazio che ospitava la ricerca. A teatro sarà interessante vedere una performance così strutturata. Si possono creare fraintendimenti da parte del pubblico. Il teatro e lo spazio fanno una grande differenza, creano delle aspettative».

Divisa in due atti, la performance mette in scena il rapporto con la figura e la scrittura di Virginia Woolf sia dal romanzo To the Lighthouse che da Mrs Dalloway. «Nella prima parte, To the Lighthouse. Cesare Viel as Virginia Woolf, propongo la ripresa di un'azione storica: travestito in parte da Virginia, sono seduto e ascolto brani tratti dal romanzo Al Faro. Ogni tanto compio pochi gesti essenziali. Prima della seconda parte ci sarà un intermezzo con la proiezione di alcune frasi mie, dove è protagonista la mia calligrafia. Nel secondo atto, Mrs Dalloway-Apparecchiare la cenaentro in scena con tre performer, tutti e tre esseri disciplinati, fra arti marziali e danza».

Qual è la loro spinta? Che cosa li ha portati a partecipare a questo tuo lavoro? «La loro motivazione è legata a uno degli aspetti performativi. Fabio Bergaglio è un danzatore di Balletto Civile; è stato anche tra i protagonisti di Orfeo Rave, la co-regia firmata da Emanuele Conte e Michela Lucenti. Oltre a essere danzatore, Bergaglio è stato mio allievo e ha quindi degli interessi attivi. L'altra, Arianna Maestrale, è anche lei una studentessa dell'Accademia Ligustica di Belle Arti, fa kung fu e ha dunque un'alta competenza del corpo. Infine, Michele Maestrale (fratello di Arianna) è interessato alla meditazione, alla presenza mentale del corpo. Sono persone con percorsi diversi con cui condivido elementi emozionali». 

Il centro della prima azione è l'ascolto. Nella seconda invece domina il movimento. «Sì, nella seconda azione c'è qualcosa che si avvicina all'improvvisazione ed è legato proprio ad allestire un tavolo per una cena. Mentre l'audio - scritto da me - prevede suoni e lunghi momenti di assoluto silenzio che diventa una presenza, mettendo in scena le emozioni che scaturiscono dal flusso narrativo di Mrs Dalloway. Viene citato anche Septimus, che è poi un doppio di Mrs Dalloway: i due non si conoscono neppure. Alla fine però lui muore suicida, interrompendo la cena. E qui la Woolf è geniale perché, con questi suoi lampi che colpiscono nel segno in modo immediato, parla della guerra, della violenza, della follia senza mai metterli al centro della trama».

Perché la Woolf? «La Woolf facilita molto la performance, perché facilita il divenire. I suoi personaggi sono attraversati gli uni dagli altri, quindi l'io è molteplice. Mentre apparecchiamo nella Woolf, come oggigiorno nella vita quotidiana, non facciamo che ascoltare di morti e guerre».

Dal flusso di coscienza Cesare Viel racconta alcune delle opere in mostra: «Un grande disegno, una tecnica più recente, adottata all'inizio del 2000», si tratta di una serie in cui l'artista tratta immagini di quotidiani e riviste, le ricalca o replica cambiandone poi la didascalia «per riflettere sulla manipolazione del rapporto tra parola e immagine. Tra queste c'è anche quello di una donna immersa dalla vita in giù che annega, una foto associata a un articolo su un'alluvione in India. Ad essa ho associato a una frase di Roland Barthes, presa dal diario dedicato alla morte della madre».

C'è poi un pezzo storico del 1987, Specchio a carbone: «Un monocromo nero che ha trent'anni, e che ho esposto solo a Genova, poi mai più. Ho persino dovuto farlo restaurare. Si tratta di nove fogli del quotidiano Il manifesto assemblati insieme a comporre come una pelle nera. Tutta la parte scritta è annerita. Costituisce un punto di partenza di una prima attività che mi ha occupato a lungo e che mi portava a cancellare la comunicazione che arrivava dai giornali. A cancellare la scrittura, le parole. Questa è stata la mia prima necessità: azzerare le parole. Da questa tabula rasa sono ripartito per poi riaffermare la parola. Il nero che cancella tutte le pagine non annulla il corpo e annuncia tante delle tematiche che verranno fuori più tardi: pelle, corpo, diaframma. E c'è qualcosa già legato alla meditazione che poi mi è servita come strumento compositivo per le performance: con la meditazione elimino i pensieri rimuginanti per entrare nel momento presente. Uno svuotarsi per dare spazio al reale e per far stare nella realtà chi fruisce il lavoro». 

Specchio a carbone finisce per essere «una contro-icona di fronte a Lost in meditation. Mentre quest'ultima è accattivante, questo primo lavoro è quasi sacrale, è un nero. Ricordo che passavo ore su questi fogli anneriti, mi ci dedicavo con tutto il corpo, erano, a ripensarci delle prime forme di performance. Poi finita quella fase ho cominciato a scrivere a mano». Cancellare era una forma di analisi accurata? «In un certo senso, sì. Per scrutare da vicino devi metterti proprio sdraiato, è un lavoro fisico e gestuale, in cui ti sporchi molto le mani».

A questo proposito vorrei riportati sulla questione di chi produce l'oggetto artistico nell'arte contemporanea, che non è sempre un manufatto dell'artista. Qual è la relazione tra Art and Craft nel tuo lavoro? «Mi piace questa domanda, perché ci riporta al circolo Bloomsbury, all'installazione visiva di William Morris. Dico che nel mio modo di lavorare c'è sia art che craft. Nel dar conto di sé il disegno è tuo, la pratica però è bello che possa passare attraverso altre presenze. Non essere più solo è un elemento che sto frequentando di più. Condividere ti sposta, ti arricchisce, ti articola il lavoro e apre ad altri attraversamenti».

All'interno dell'allestimento è visibile anche uno dei tuoi tappeti (2010): «È il mio terzo tappeto, quello del 2010, che arriva dopo i due del 2008. Tornando a chi realizza l'opera, mi viene in mente Alighiero Boetti, che faceva fare i suoi arazzi dalle donne in Afganistan. Come Duchamp con i ready made, venivano percepiti come provocazioni e invece semplicemente aprivano ad altre regole del gioco. Perché l'arte è gioco. Se ti affidi alle stesse regole del gioco, l'arte finisce. Anche l'autorialità è una regola del gioco. Mi viene in mente anche Mona Hatoum. Questo problema rispunta sempre, come se l'autenticità potesse essere un criterio di verifica dell'artisticità». 

Di Laura Santini

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