Don Carlo a Genova: un monumentale dramma storico

Marcello Orselli

Genova, 28/04/2017.

Le premesse che potesse essere un’opera pesante c’erano tutte, compreso l’orario di inizio della prima, anticipato alle ore 19, di ben un’ora e mezza rispetto al normale. Si sa che il Don Carlo musicato da Giuseppe Verdi è un’opera lunga e complessa e, forse per questo, è stata rappresentata a Genova soltanto otto volte.

Eppure vinco i timori e non me ne pento. La versione che va in scena al Teatro Carlo Felice è quella del 1884 (Teatro alla Scala, Milano), in lingua italiana e suddivisa in quattro atti. Il debutto dell’opera, tratta dal dramma di Friedrich Schiller Don Karlos, Infant von Spanien (1787), era avvenuto nel 1867 all’Opéra di Parigi, in cinque atti e in lingua francese. Le revisioni del compositore, che gli permisero più concisione e più nerbo, si devono alle più tarde riprese in Italia.

A monte del libretto scritto da François-Joseph Méry e Camille Du Locle (traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini) e di Schiller stesso, c’è però un racconto storico, Don Carlos, pubblicato nel 1672 dall’abate César Vichard de Saint-Réal.

Da qui deriva la vicenda di corte ricca di intrighi, con la giovane Elisabetta di Valois (figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de’ Medici), coetanea di Carlos e a lui promessa, ma sposata dal padre, il re di Spagna Filippo II, per ragioni di alleanze politiche. Lo stesso Verdi dichiarerà che nel suo dramma storico, pur splendido per forma e per concetti generosi, tutto è falso. Nella realtà storica, poi, sia Carlos che Elisabetta, che non ebbero alcuna relazione amorosa, muoiono a soli 23 anni.

Dirige (bene) il giovane e valente Valerio Galli, per la regia di Cesare Lievi, in questo nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice, in coproduzione con la Fondazione Teatro Regio di Parma e Auditorium de Tenerife Adán Martín. Le scene di Maurizio Balò, che firma anche i bei costumi, sono veramente splendide, per sintesi e pulizia formale, e trasmettono in modo originale ed efficace lo spirito del secolo e dell’ambiente plumbeo e algido della corte.

L’azione ha luogo in Spagna, verso il 1560. Che ci troviamo di fronte a un’opera monumentale appare chiaro da subito. Sulla scena che si apre domina una gigantesca lastra tombale di gelido marmo, con la scritta Carlos V a fare da sfondo alle preghiere dei frati. Si respira un'aria cupa e austera, quella del potere della Chiesa, che deplora la volontà del sommo imperatore di aver voluto regnare sul mondo obliando il cielo: L’orgoglio immenso fu, fu l’error suo / profondo!

Nell’Atto I (64 minuti) i personaggi compaiono e si delineano uno a uno: Don Carlo (interpretato dal bravo tenore venezuelano Aquiles Machado), che si dispera per il matrimonio della sua amata (Io l’ho perduta!); Rodrigo marchese di Posa (il baritono Franco Vassallo, ottimo nel ruolo e nella vocalità), nobile e disinteressato, animato dallo spirito di libertà per il popolo fiammingo (apprendi omai / in mezzo a gente oppressa a divenir un Re!), amico e confidente (Carlo mio, con me dividi / Il tuo pianto, il tuo dolor!); la Principessa Eboli (il mezzosoprano Giovanna Casolla, eccellente in un ruolo che le si confà, applauditissima per i fluenti vocalizzi nella canzon saracina), che equivoca sull’amore di Carlo, pensandolo rivolto a lei; Elisabetta di Valois (il soprano bulgaro Svetla Vassileva, di bellezza regale, ma di voce non sempre perfetta), turbata nell’incontro con Carlo (Rivederlo è morir!), costretta a un nobil silenzio per preservare l’innocenza e, comunque, commossa di fronte al suo amore (Tra queste braccia io lo vedrò / Morir d’affanno, morir d’amore… / Colui che il ciel mi destinò!...); Filippo II re di Spagna (il basso Riccardo Zanellato, che debutta benissimo nel ruolo, al quale presta un fisico possente e una voce adeguata), che non può fidarsi di nessuno a corte (Col sangue sol potei la pace aver del mondo), tranne che di Rodrigo (Ripongo il cor nella leal tua man!).

Nell’Atto II (33 minuti) si segnalano la scena dei condannati al rogo dal Santo Uffizio (Il dì spuntò, dì del terrore), che sfilano martoriati davanti al popolo (Onore al più grande dei Re!); la discesa di Filippo dalla scala prospettica e simbolica, sulla quale abbandona il lungo manto; l’incontro con i sei deputati fiamminghi (bella l’interpretazione della loro preghiera: Tutt’un popol t’implora), di cui lui non accoglie le istanze; la ribellione del figlio Carlo, di conseguenza, che punta l’acciar innanzi al Re; Rodrigo che lo disarma; il bagliore delle fiamme del rogo punitor che si accendono.

Nell’Atto III (53 minuti) Filippo dichiara la sua debolezza (e stanchezza) di uomo, cantando trasognato all’alba Ella giammai m’amò, rendendosi conto dell’età che avanza (Il mio crin bianco) e del suo potere precario (Se dorme il prence, veglia il traditor): Zanellato merita qui molti applausi. Dall’incontro strategico con l’inquietante grande Inquisitore, cieco e nonagenario, vestito di rosso sangue (il basso Marco Spotti, dalla voce convincente e appropriatamente grave), Filippo capisce che Dunque il tron piegar dovrà / sempre all’altar. Seguono altri duetti: il re e la regina (si arriva quasi a uno strangolamento); Elisabetta ed Eboli (struggente l’assolo della Casolla: O don fatal, o don crudel (…) speme non ho – soffrir dovrò, che strappa al pubblico tre minuti di ovazioni per la sua tenuta di voce); Rodrigo e Don Carlo, nella prigione in cui quest’ultimo è rinchiuso (fantastica la rete metallica irregolare che denota il luogo); Filippo e Don Carlo, dopo la morte di Rodrigo, sacrificatosi all’amico.

Nel breve Atto IV (24 minuti) Elisabetta e Don Carlo, dopo essersi dichiarato reciproco amore (L’amor degno di noi, l’amor che i forti infiamma! / Ei fa dell’uomo un Dio) si danno l’addio, mentre Filippo e l’Inquisitore, sopraggiunti, li condannano. Nel finale soprannaturale, la lastra tombale della scena d’inizio si incrina, si spacca, si apre e Don Carlo viene accolto tra le braccia di Carlo V.

I punti salienti dell’opera sottolineano i contenuti politici, anche quelli che sicuramente vi ha riversato Verdi a ridosso dell’Unità d’Italia. I conflitti sono insanabili e i duetti in musica tra i personaggi, sui quali si basa in gran parte l’azione drammatica, non sono confronti, non sono quasi mai dialoghi, perché tutto è già deciso: la ragione pubblica prevale su quella privata, il totalitarismo sulla libertà, la Chiesa sullo Stato, come il padre prevale sul figlio e la ragione sul cuore.

Il regista lavora molto bene a quel senso di potere che esiste per potere di un altro potere: la Chiesa, come dichiara, e sottolinea, al tempo stesso, l’immobilità della corte, stretta nei suoi costumi scuri, come in un perenne lutto, e chiusa al divenire della Storia, o il grigiore delle masse (il Popolo), strumentalizzabili e schiacciate dall’ignoranza e dalla superstizione. Gli eroi sono Rodrigo e Carlo, un simbolo a cui guardare, anche se la loro esistenza è tragica.

Insomma, un’edizione, questa, del Don Carlo che va vista – cogliendo il lusso di rappresentarla, che pochi teatri si possono permettere –, e dove, nel complesso, tutto funziona: dalle scene di sapore postmoderno, alla convincente interpretazione attoriale dei personaggi, dai contenuti ancora attuali ai pezzi musicali di grande maturità verdiana, fino alle voci dei cantanti lirici, che ben si alterneranno, ne siamo sicuri, anche con il secondo cast.

Di Linda Kaiser

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