Una cauta rivoluzione per I giusti di Conte alla Tosse

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Giovedì 2 marzo 2017, ore 18.00 nella sala Aldo Trionfo del Teatro della Tosse, prima della replica de I Giusti, verrà presentato in forma di mise en voix (lettura teatralizzata), L’improvviso dei filosofi, un breve scherzo di Albert Camus (firmato con lo pseudonimo Antoine Bailly) rimasto inedito fino al 2006 e tradotto da Andrea Bianchi per la rivista Micromega nel numero 6/2013. La lettura sarà l’occasione per ricordare Andrea Bianchi traduttore che aveva iniziato la collaborazione con il Teatro della Tosse con la sua splendida traduzione del Caligola. L’ingresso è libero.

Genova, 23/02/2017.

Nei dialoghi di Platone, Socrate usa il dialogo per cercare di arrivare a stabilire la verità su questioni complesse. In un confronto diretto e aperto, opponendo personaggi di opinioni divergenti, la verità emerge poco a poco, quasi da sé. D'altra parte attraverso l'arte della retorica Socrate riesce a smontare, senza presunzione, i vari ragionamenti. Ne I giusti Albert Camus sembra utilizzare questa stessa struttura, ma l'arte della retorica va in una direzione essenzialmente poetico-letteraria.

In Camus, il confronto, seppur intenso e onestamente condotto, non riesce a portare a un'unica verità condivisa. Le contrapposte posizioni individuano esseri umani forti, segnati da esperienze di vita profondamente distinte, che non consentono loro di concordare una visione del mondo univoca. Faticano a riconoscersi l'un l'altro, nonostante intendano lottare per un'idea e una causa superiore a ogni individuo. Comprensibile e condivisibile il fascino che questo testo ha esercitato su Emanuele Conte portandolo a creare una nuova produzione I giusti appunto per il Teatro della Tosse - in scena fino al 4 marzo 2017.

Con alle spalle e ai piedi, una superficie bianca le figure degli interpreti di questo spettacolo si stagliano di continuo nelle loro posizioni, come elementi scenici - spesso a lungo fissi - su una scena essenzialmente vuota che ospita al suo centro una gabbia in ferro. Come immortalate su una tela, queste figure diventano quasi disegni, ritratti di persone fissate per sempre - simbolicamente incastrate in un'unica e definitiva scelta, la rivoluzione.

Sopra la gabbia - prigione nella seconda parte - si consumano i confronti dialogici. In nome della verità e della giustizia per il popolo russo, questo nucleo di rivoluzionari ha congelato la propria parte emotiva e umana. Inchiodati dalla freddezza con cui sono chiamati a ragionare, rinunciano alla tridimensionalità della vita per l'ideale rivoluzionario: vivono solo per compiere l'azione, essere catturati e portati al patibolo. Rinuciano alle semplici inclinazioni umane, a ogni forma di piacere. La regia di Conte spinge su questo annullamento, rallentando il ritmo e l'urgenza che un gruppo d'azione terroristico potrebbe far immaginare. Rallentando su quei vissuti speciali che rendono ognuno unico e non azzerabile. Il gruppo si presenta come sconfitto a priori. Impedito da un senso ineluttabile di amarezza.

Come avvolgendo tutto in un grande manto che sospende la frenesia del tempo, Conte punta su recitazioni per lo più monocordi, da cui emergono solo alcune eccezioni: l'odio e la necessità di vendetta di Steban interpretato da Luca Mammoli (di Generazione Disagio); anche impegnato con il poliziotto del carcere Skuratov, questa volta alle prese con un tono suadente e ricattatorio. Torna la dimensione emotiva anche per la fragilità di un rivoluzionario in crisi Voinov di Alessio Zirulia e per la Duchessa di Sarah Pesca, altrimenti impegnata nella gelata vocalità assoluta dell'unica rivoluzionaria donna, Dora. La richiesta di un cambio di registro per Skuratov e la Duchessa coincide con la seconda parte dello spettacolo, quando la prospettiva si stringe sulla prigione dove il rivoluzionario e poeta Kaliayev (GianMaria Martini) attende di conoscere la sua sentenza a monte dell'assassinio del Granduca.

Tendenzialmente realistico lo Skuratov di Mamoli. Decisamente surreale la Duchessa di Pesca. Personaggio fuori dal mondo della rivoluzione, ma anche dal mondo delle persone comuni, sconvolta e trasformata dalla morte del marito, la Granduchessa è un carillon vivente dal procedere sospeso, non umano, associato a una voce acuta e cantilenante che la pone distante da tutto e tutti. Quasi una maschera. O una visione distorta, frutto di un incubo che mescolato alla componente religiosa finisce per distruggere una delle caratteristiche altre e uniche del poeta-rivoluzionario, la fede.

La dimensione del confronto, perde nerbo, si dilata. L'azione resta tutta fuori scena. I grandi eventi, quelli tanto attesi - il segnale e il lancio della bomba - sono solo suoni in voice over: lo scalpiccio di una carrozza e la detonazione della bomba. L'unica situazione incalzante è l'esordio musicale in cui, come al cinema, è la dimensione sonora a giocare sulle aspettative e la risposta empatica del pubblico, al di là di quello che si vede; anzi proprio a partire dalla staticità scenica, la musica costruisce il suo incalzare (un po' alla Star Wars). Come le variazioni di registro, però, anche questa scelta resta isolata.

Il testo non smette di affascinare ma lo spettacolo tende a restare in una dimensione puramente estetica. Icone e simboli sono accenati e non esplorati, la narrazione si ferma a un livello zero - seppure ci sia in Camus un'evoluzione dei caratteri - conferendo una generale fragilità all'impianto. Nato su un'interessante intuzione, ovvero il sacrificio che porta all'annullamento e a una fissità emotivo-mentale in nome di un obiettivo più alto, lo spettacolo fredda l'umano senza offrire un altrove in cui riposizionare il confronto. Lo scontro tra vissuti diversi, tra classi sociali, punti forti nel confronto fra Kaliayev e Steban, si perde tra le tante parole che scorrono dall'uno all'altro dei personaggi in quelli che, sono costruiti come scambi verbali, ma sembrano soliloqui più che dialoghi.

Su una scena che si contende il testimone con la regia, va in atto una rivoluzione cauta.

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