Tre alberghi: solitudine e successo al Teatro della Tosse

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Genova, 28/01/2017.

Come sempre succede, anche in Tre alberghi (Three Hotels, 1993) del drammaturgo americano Jon Robin Baitz, ognuno ha la sua versione della storia. Non importa essere stati testimoni immersi nella stessa vicenda, neppure vale partecipare come compagni di vita. La versione dei fatti di lui. La versione dei fatti di lei. Due mondi paralleli. La solitudine del proprio sguardo non coincide mai con quella dell'altro/a. Qualche volta semplicemente si decide di sposare l'immaginario dell'altro/a perché è bello. Resta la solitudine di non riuscire ad averlo creato noi quel sogno, desiderio, futuro. In scena al Teatro della Tosse fino al 29 gennaio 2017.

Nella regia di Serena Sinigaglia in primo piano due prove d'attore: quella di Francesco Migliaccio e Maria Grazia Plos. Ken (Migliaccio) e Barbara (Plos) sono marito e moglie. Lui è il manager di una corporation che distribuisce latte in polvere nel mondo, lei la moglie, nella tipica versione americana, supporter del marito e coinvolta nelle occasioni di rappresentanza a sostegno della mission dell'azienda.

Il Ken di Migliaccio è vestito di tutto punto, ma ripiegato su se stesso. Privo di interlocutori, incapace di ascoltare, si rivolge con insistenza al suo bicchiere: utile supporto a ingoiare il prossimo boccone amaro. Nel suo monologo interviene la voce fuori campo insistente della moglie, da lui evocata, quindi scacciata urlando più forte, ancora più forte. Il suo è un training scientifico proiettato esclusivamente in avanti. Indurito, in un percorso di successo che, nella sua versione, si è innescato quasi incidentalmente, Ken ha due smorfie che utilizza con esperta consapevolezza: un sorriso mostruoso, teso, abnorme per le occasioni pubbliche; un taglio della bocca tirato all'indietro ogni volta che si sforza di ingoiare l'ennesima dose di alcol. Lui non è nell'una né l'altra cosa. Lui è in verità, semplicemente malinconico; cerca disperatamente la moglie, quella di un tempo, ma lei svanisce.

La paletta espressiva di Ken - in un'ottima prova d'attore di Migliaccio, moderata e sofferta - spazia dal languore malinconico al dubbio, dalla fragilità di non comprendersi più, fino a un senso sarcastico e malevolo di autoironia. Una serie di passaggi fortunati, come racconta lui, l'hanno portato in una posizione di potere, ma questo potere è un simulacro. Il suo tipo di lavoro, la fonte di tanto successo, è fare il tagliateste. Con eleganza. Qualcosa di cui è difficile andare fieri, no? Specie posti all'interno di una corporation che vende il latte in polvere nel terzo mondo / nei paesi in via di sviluppo con strategie di marketing truffaldine e criminali.

La Barbara di Plos è una donna per bene, borghese, elegante, solida, autonoma nel pensiero ma solo fino a un certo punto. Sì, perché un giorno come moglie ha deciso di abdicare alla sua coscienza attiva e di abbracciare quello che il marito le presenta come un grande progetto di vita "gente come noi cambierà il mondo". Lei, Ken e Brandon sulla spiaggia in Brasile: è irresistibile, è l'amore. Impossibile non aderire senza pensarci. Brandon ha solo 7 anni, sprizza vitalità correndo su e giù per la sabbia.

Tre quadri, in tre diverse stanze d'albergo. Senza cambi di scena. Senza arredi realistici. Solo scatole di latta senza etichetta impilate l'una sull'altra. La prima stanza è algida e immobile. La seconda prepara la terza. Si vuota il sacco e quanto esce tutto, ma proprio tutto, ecco fatto pronto il terreno per il terzo quadro: là dove tutto crollerà miseramente. La casa costruita sulla sabbia che torna ad essere forma inconsistente dispersa in mille identitici granelli. L'ultimo quadro - il meno felice drammaturgicamente - è un epilogo troppo chiaramente spinto verso sintesi e chiusura. E, forse, chiamando in causa la madre - per la prima volta in tutto il testo - pretestuodo gesto puerile: se non mi risponde la moglie almeno la madre mi ascolterà.

Ken prima, Barbara poi ci mettono a parte di una storia prima drammatica poi tragica. Ken parte da quello che è diventato impilando episodi del suo macabro successo - e lì incagliato resta. Barbara ci porta in media res nel momento del climax, quando si libererà da un patto d'amore fallito, non per vendetta però, semplicemente per recuperare quel po' di se stessa che resta, mentre tutto è andato perduto. Gesto vano, coreografia studiata a tavolino da altri, come si evince ben presto, per cui non c'è spazio per un possibile senso di riscatto.

Il tempo non è quello della storia. E forse non è neanche quello del racconto. Il tempo è quello di un'agire del pensiero che stratifica tutto in un magma, dove tutto il ripugnante viene a galla ad affollare un già claustrofobico presente. Il tempo è quello a cui le nostre identità danno la priorità in un confuso rigurgito di fatti e emozioni. Un tempo dove raziocino e emozioni si combattono. In un assillo di domande incalzanti su cosa facciamo e dove stiamo andando.

Ognuno ha il suo rimosso, ma è Ken, più che Barbara il protagonista della storia negata. Le sue tante parole svelano simbolicamente il suo disagio, il suo divenire pedina nelle mani di altri, il suo non essere più marito della propria moglie. Il lui presentato è quello che ha negato la sua formazione, i suoi principi, la sua morale. Sarà Barbara a raccontare chi è veramente, a parlare del suo rimosso. Sarà lui, però, la vittima finale. Barbara no. Per lei ci sono errori ma anche tentativi in estremis di rimediare.

Un'indagine microstorica con cui si ritrae il feroce meccanismo contemporaneo di vite incardinate in meccanismi più ampi, dove dominano interessi economico-politici. Gli esseri umani? Solo misere pedine, le cui vite sono alla mercé di grandi appettiti meschinamente umani accidentalmente dotati di potere decisionale.

Di Laura Santini

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