Via le emozioni dal Macbeth, al Teatro della Corte

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Genova, 17/01/2017.

Due principi avvolgono il Macbeth shakesperiano proposto da Luca De Fusco: i misteri della natura a cui appartengono le streghe e la magica e oscura potenza che domina il pensiero e l'agire umano. Entrambi dimensioni eternamente spiazzanti e inafferrabili, in scena si amalgamano attraverso la predilezione per variazioni cromatiche di tonalità scure, soprattutto nero e grigio, a cui partecipa però anche l'altro grande colore dell'enigma, il bianco. Dentro questa assenza di toni vitali (fino all'inlavabile rosso-sangue), si nascondono identità e poteri delle tre figure di donna che di femminile hanno solo corpo e sembianze ma non il volto: irriconoscibile agli occhi di Macbeth. Creature che appartengono all'aere come le fate, forse all'immaginazione di menti disposte a configurare il proprio futuro più che a vivere il presente; evocate da un respiro fuori scena che ne è icona sonora, le streghe sono forme sinuose, danzanti e suadenti, rese attraverso una serie di chiuse composizioni coreografiche (spettacolo nello spettacolo) di Noa Wertheim (direttrice della Vertigo Dance Company).

Se si è spesso calcato sulla debolezza di Macbeth e sulla crudeltà fiera e snaturata di Lady Macbeth, De Fusco torna a una lettura del testo più tradizionale ribilanciando il peso specifico delle due figure. Eguali nel complottare contro il re Duncan e nel perseguire l'eliminazione sistematica della sua stirpe, i due sono ugualmente proiettati, quasi in preda a un trans, verso l'ambizione del trono - proprio come predetto dalle voci stregate incontrate da Macbeth e Banquo nel bosco.

La cromaticità della scena si tramuta sul piano vocale in una recitazione che il cast spinge in avanti con una certa premura. La dimensione emotiva di ognuno è messa in secondo piano, come a raccontare un mondo e un tempo in cui ciò che più importa è la missione e il ruolo, non la propria identità terrena. Via le emozioni dunque, via i toni, spazio a un ritmo cadenzato quasi fatalmente condotto verso l'ineluttabile destino della storia. La misfatta di desiderio di grandezza smisurato che tutto annienta fino all'autoannientamento.

In una sospensione di tutto ciò che pertiene e dà forma all'umanità nel suo complesso, sia nelle espressioni di debolezza e fragilità che di forza e determinazione, si supera e accelera cavalcando la tensione nervosa di chi punta verso alti fini, certo non terreni e non riconducibili ad anima terrestre.

A restare umano terribilmente umano, forse perché prima di tutto guidato dalla propria ambizione inespressa, prima ancora che da forze esterne, il Macbeth di Luca Lazzareschi. I suoi cedimenti, i suoi assoli, sono gravati da quell'incertezza che a nessun altro personaggio in questa produzione è consentita. Riaffiora in lui dunque un po' di umanità e si instaura una forma possibile di empatia, in un impianto estremamente algido.

A differenza dell'Antigone (2013), dove l'utilizzo delle telecamere in scena e delle proiezioni video che portavano in primo piano i volti dei personaggi fino ad occupare l'intero quadro del palcoscenico, in modo spiazzante, sfruttando in modo originale il boccascena e gli ingressi stessi delle immagini, qui l'utilizzo della componente 'cinematografica' è più statico. Inizialmente Lady Macbeth (Gaia Aprea) volgendo la schiena al pubblico ci è resa visibile dallo 'specchio' che la ritrae, come la strega cattiva di Biancaneve, nella sua ossessiva ricerca di primeggiare. Il suo volto proiettato campeggerà poi sulla quarta parete la cui grana subirà alcuni altri 'travestimenti' per essere fitto intreccio boscoso, cupa foresta, volo fascinoso di maestoso barbaggiani le cui fluttuanti ali avvolgeranno i personaggi; o ancora falco presto vittima, secondo il testo, proprio del predatore notturno.

Scarseggiano dunque le emozioni, espulse da una sorta di feroce anestetico che percorre l'allestimento e ingabbia tutto, come a stringere la vicenda in un'inellutabile morsa che allontana però anche ogni possibile monito. Il fascino del Macbeth però, come in molte altre crudeli e sanguinose fiabe, non era quello di ricordarci la nostra mostruosità, premendo il dito là dove il nostro essere è più sensibile?

Di Laura Santini

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